mercoledì 12 gennaio 2011

Il diritto all'adultità



di Timeout

Ho letto, sulla rivista della Cooperativa La Rete, questo contributo del dr.Giovanni Gelmuzzi, presidente dell‘Associazione “Oltre noi….la vita” di Milano, tratto dal Convegno “La protezione giuridica. Luci ed ombre nell’applicazione della Legge 6/2004” e mi sembrava bello postarlo sul blog dei Genitori Tosti in quanto non solo condivido e mi rispecchio nelle sue parole, ma lo trovo di elevato interesse, soprattutto per quei genitori che hanno un figlio in età adulta e che si pongono domande sul futuro. Avrei anche molto piacere di leggere poi in seguito riflessioni e commenti da parte dei lettori.

IL DIRITTO ALL’ADULTITA’

Il compito di ogni genitore comprende il raggiungimento del traguardo dell’autonomia dei figli. Il figlio ha diritto a raggiungere una vita autonoma come frutto del processo di realizzazione di sé e la vita autonoma del figlio costituisce una legittima aspirazione del genitore in previsione del dopo di noi.
Un dopo di noi che riguarda tutti i genitori. Ogni genitore conta di veder sistemati i suoi figli. Solo così trascorrerà serenamente la sua vecchiaia. Ogni genitore conta che il figlio non dipenda più dalle sue cure e dal suo sostegno ma vada per la sua strada e magari lo chiami a passare dall’impegno di genitore all’impegno di nonno.
Il genitore che ha un figlio non autonomo nonostante abbia raggiunto, magari da diversi anni, la maggiore età permane nello stato di preoccupazione per questa precarietà destinata a protrarsi nel dopo di noi.
Ecco l’origine di quella situazione di angoscia che assale il genitore se nel durante noi non riesce a progettare, a sperimentare e possibilmente a consolidare quella che comunque, ineluttabilmente, dovrà essere la condizione di possibile autonomia del figlio. La condizione nella quale il figlio dovrà vivere senza i genitori.
Le reti dei servizi del territorio che hanno reso possibile negli ultimi quarant’anni la de istituzionalizzazione, hanno incluso nella rete i preziosi servizi offerti dalla famiglia, senza prevedere l’invecchiamento dei genitori e la inadeguatezza, per il processo di maturazione del figlio, del protrarsi di una vita “genitore-dipendente”. Una vita di figlio, magari cinquantenne, col genitore, magari ottantenne, ormai stremato di energie.
Ma questo è il volto del problema considerato dalla prospettiva e dal vissuto dei genitori.
Una prospettiva comunque da considerare non accettabile, essendo invece giusto che si rendano disponibili le risorse atte a realizzare un percorso di vita autonoma per un figlio con disabilità, senza continuare a gravare anche per un servizio assistenziale, su genitori che a loro volta non ce la fanno più.
Ma c’è anche la prospettiva pedagogica.
Una prospettica che ci porta a considerare il problema posto dal diritto di un figlio, più o meno penalizzato da disabilità, ad entrare nella dimensione della sua vita adulta. Purtroppo assistiamo ad una generalizzata situazione di affido alla famiglia fino al decesso dei genitori, cosicché il figlio dalla nascita alla morte del genitore sarà costretto ad una esperienza esistenziale di figlio, maturando in lui pertanto unicamente un’identità di figlio, senza alcuno stimolo a sviluppare una identità di adulto e le potenzialità di una vita indipendente. Una vita che possa realizzarsi in modo indipendente da quella protesi genitoriale nella quale facilmente si crea una identità simbiotica.
Quanti genitori sperimentano l’esistenza di capacità impensate nel figlio, in occasione di esperienze di vita condotta fuori casa; esperienze magari non programmate, ma determinate da cause di forza maggiore. Come potrà costruire un sé adulto per vivere la sua autonomia chi viene continuamente mantenuto nella esperienza di figlio?
Solo in quelle occasioni di esperienza di vacanza con la parrocchia o presso un servizio di educazione alla vita autonoma, il figlio si misura con una richiesta di organizzazione delle sue capacità di autonomia e con l’ambizione di dimostrare che è capace di farcela da solo! Nella quotidiana esperienza di vita famigliare, peraltro così ricca di sostegno affettivo e di risposte a bisogni particolari, manca invece questa sollecitazione a farcela da solo, a conquistare spazi di autosufficienza e di autonomia verso una dimensione di un io adulto. Con papà e mamma il figlio anche di quarant’anni, permane quotidianamente nella esperienza di figlio accudito da genitori premurosi, che si prodigano per prevenire ogni suo bisogno e che a volte preferiscono fare piuttosto che far fare, anche solo perché così facendo si perde meno tempo.
Traumatico sarà per quel figlio che ha vissuto nella condizione di “genitore-dipendente”, il dover entrare nella dimensione di vita fuori casa e quindi assumendo l’identità di adulto soltanto in occasione del venir meno della famiglia. Traumatico sarà per lui l’essere condotto in una dimensione di possibile vita autonoma nel momento di massima fragilità emotiva e psicologica determinata dalla perdita del genitore!
Quanto sarebbe stato meglio che il progetto e l’esperienza di vita autonoma fosse stato gestito dai genitori anziché da un servizio sociale!
Servizi e supporti per il progetto di vita autonoma! Il genitore deve essere aiutato a progettare un percorso per una possibile vita autonoma per il figlio e deve essere aiutato anche psicologicamente a proporre al figlio la maturazione di capacità che lo rendano più autonomo collocandolo gradualmente fuori da questa simbiosi spesso favorita dal genitore a causa di quel suo sentirsi indispensabile; di quella certezza che non potrà mai farcela da solo. Un sentire e una certezza che dovranno ineluttabilmente fare i conti con le conseguenze del fatto che il genitore invecchia e dovrà comunque lasciare il figlio.
Il genitore deve essere aiutato affinché nel “durante noi” possa veder “sistemato” anche questo figlio. E questo compito che è compreso nella mission del genitore non deve essere rinviato al dopo di noi e di conseguenza gestito da altri.
E per aiutare questi genitori chi e con quali strumenti si deve intervenire? I servizi e le loro risorse devono dare risposta puntuale ed efficace a questo bisogno del genitore e devono rispondere al bisogno, altrettanto legittimo, di consentire a un cittadino, ancor più se fragile, di organizzare la sua vita adulta.
Le normative, i servizi sociali, le risorse e spesso anche la cultura degli operatore ci sembra si basino sull’idea che il “dopo di noi” sia un problema da affrontare quando i genitori non ci saranno più.
Si prevedono interventi per il “dopo”, mentre occorre prevedere servizi del “durante” in previsione del “dopo”.
Si deve pensare a facilitare percorsi di vita autonoma per persone fragili che non potranno farcela da soli perché è un loro diritto e perché soli sono destinati a rimanere.
Giovanni Gelmuzzi

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