venerdì 15 ottobre 2010

Testimonianza di un papà


di Bazen:
Esperienze “prima”

Spesso mi son chiesto se e quanto le esperienze avute con persone disabili mi abbiano aiutato nel saper gestire l’impatto prima, e la vita dopo con quella, inaspettata, di mia figlia.

Se la risposta è positiva per diversi motivi, credo sia interessante soffermarsi a capire, a posteriori, le valenze di queste esperienze, nella certezza che i tanto agognati “valori” siano sotto gli occhi di tutti, basta saperli vedere.

Per quanto mi riguarda nella formazione scolastica non ricordo di aver avuto momenti di riflessione sul tema e l’ambiente extrafamigliare nel quale sono cresciuto non ha mai avuto una gran considerazione per le disabilità o almeno questa è a posteriori la mia sintesi.

Nella sfera famigliare avevo uno zio con sindrome di down che ho frequentato nei momenti di vacanza fin dall’infanzia; il fatto che sia vissuto in un ambiente chiuso quale quello di una vallata montana (e molto distante da dove vivevo) tra gli anni cinquanta fino al nuovo secolo ne ha consentito una integrazione sociale particolare: amato da tutti in paese ma con momenti di effettiva integrazione molto rari. Solo negli ultimi quindici anni di vita le cose erano cambiate notevolmente grazie alle strutture che nel frattempo avevano acquisito i diritti e un’operatività capace di donargli la serenità necessaria.

Altre esperienze significative, a stretto contatto con persone disabili, non ne ho sostanzialmente avute fino al 1995, anno del servizio civile, svolto presso i servizi sociali di un comune della bassa padana. Come sempre in questi casi, ci si trova ad operare in una realtà sconosciuta e senza alcuna preparazione, anche se ciò non ha rappresentato un problema. Il mio compito è stato di assistere, oltre agli anziani anche bambini e ragazzi disabili in qualche momento della loro giornata.

In particolare tra questi ultimi ne ricordo tre, la prima dei quali, anche in ordine cronologico nei compiti della giornata, era una bimba di 7 anni, che accompagnavo nel viaggio verso la struttura scolastica e poi andavo a riprendere nel pomeriggio, viaggio compiuto da un mezzo di una società privata. La bimba era disabile gravissima sia dal punto di vista motorio che intellettivo, non ho mai saputo che sindrome avesse. In automobile le sedevo accanto, parlando del più e del meno, di cosa avrebbe visto quella mattina a scuola e del pomeriggio. Spesso si rideva insieme nel mimare espressioni particolari e buffe; non era raro che si sentisse poco bene in automobile, ma eravamo preparati con asciugamani, scottex e quant’altro. Il pomeriggio, nel riportarla indietro spesso Morfeo l’accoglieva, riposando senza svegliarsi neanche quando la adagiavamo nella sua passeggino e portavamo in casa, dalla sua mamma che la aspettava.

Poi c’era Fabrizio, ragazzo di 16 anni, anch’egli con una grave disabilità. A casa sua passavamo qualche ora del pomeriggio, dato che la mattina frequentava la scuola; se il tempo era bello, si giocava a basket oppure s’andava in bicicletta nella stradina in mezzo ai campi a vedere la cascina poco distante. Il ricordo indelebile di Fabrizio è legato alla sua dirompente volontà di compiere qualsiasi cosa a dispetto del fisico che lo costringeva in movimenti disarmonici, ma pur sempre con degli ottimi canestri! La sua passione vera erano le consolle dei videogiochi: ci avrebbe passato tutto il tempo nel giocare a football piuttosto che a tennis, ma non si poteva sempre chiudersi in casa! Allora con la famiglia si cercavano tutte le motivazioni possibili per uscire. Credo si possa affermare, non senza una certa amarezza, che il gioco virtuale costituiva un rifugio dove sentirsi liberi dalle costrizioni della disabilità, garantendogli una serenità introvabile nel mondo reale.
Infine racconto di Maurizio, ragazzo sedicenne, down, la cui famiglia aveva impostato un intenso programma di allenamento psicofisico volto a stimolare tutte le capacità del ragazzo. E con che risultati! È stato un insegnamento notevole poter osservare quali traguardi si possono conseguire grazie all’impegno della famiglia nel capire fin nel dettaglio le peculiarità della persona per sopperire ai limiti, lavorando su entrambi. Con Maurizio c’era da stare sempre allerta per la sua grande capacità a prendere per i fondelli con scuse di ogni genere che trascendevano nel melodramma. All’apparenza svogliato o insofferente, in realtà alla inesauribile ricerca del grado di sopportazione dell’interlocutore, Maurizio ti osservava con un occhio durante le sceneggiate, per vedere se la bevevi. Quanto tempo passato ad ascoltare le cronache delle partite di calcio, passione che lo accomunava anche a Fabrizio.
Nel vivere accanto a questi ragazzi non ho potuto non considerare la condizione di disagio psicologico delle famiglie; la sequenza descritta rappresenta il mutare da un grado di sofferenza elevato fino ad una consapevolezza serena legata a un impegno tenace della famiglia nel crescere i figli verso il miglior futuro possibile.

E, forse, proprio questa è la sintesi del valore delle esperienze vissute: il grado di disabilità rappresenta solo l’origine, il punto di inizio di un’avventura verso un futuro che difficilmente possiamo prevedere, ma solo preparare con tutte le nostre energie nel miglior modo possibile.

Ps: ovviamente i nomi citati sono di fantasia.

3 commenti:

  1. Bazen questa tua analisi mi è piaciuto tantissimo.........il lavoro della famiglia è fondamentale.
    Non sappiamo dove arriviamo, ma lavoriamo senza scoraggiarci e ogni risultato positivo è un incentivo ad andare avanti. Facendo così ...con i risultati ci gasiamo noi familiari e la strada è meno dura!!
    Grazie di questo tuo contributo, il servizio civile ti ha comunque aperto delle porte che non conoscevi...poi quando anche tu sei entrato nel mondo più "complicato" ....
    ti sei dato da fare.........
    Marciamo.....che abbiamo ancora un sacco di strada da fare...in salita.

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